June 16, 2011 | In: Ecology, Economy, Opinion, Social

Gli effetti della vittoria dei referendum

Ringalluzzito da un buon risultato accademico e con la piena intenzione di non dedicarmi oggi ad altro che non sia svago, torno ad aggiornare il blog con un argomento di cui avevo trattato più di un anno fa e che è stato oggetto di ben due quesiti referendari.

Ovviamente sto parlando della gestione e della distribuzione dell’acqua, che avevo analizzato in “Perché non privatizzare l’acqua” in cui avevo evidenziato alcuni punti fortemente negativi della precedente legislazione contenuta nel Decreto Ronchi prima ancora che si iniziasse la raccolta firme per chiederne l’abrogazione. Della serie “non è che ci volesse un genio”…

La normativa contenuta nell’articolo 23-bis ricalcava in alcune parti la direttiva europea in materia, con diversi passaggi che superavano la succitata direttiva in quanto a spinta verso la privatizzazione, e prevedevano che:

il pubblico, che sia lo stato, la regione la provincia o il comune non può e non potrà più gestire la distribuzione dell’acqua salvo nel caso in cui le condizioni del mercato non rendano la stessa impossibile. Detta in altri termini il pubblico dovrà distribuire l’acqua dove non c’è e non potrà nemmeno concorrere per distribuirla dove c’è.

Questo punto della normativa italiana è stato spazzato via dal primo quesito referendario, che ha visto la maggioranza assoluta (circa il 51,5%) degli italiani sia residenti in Italia che all’estero affermare la volontà di abrogare l’articolo 23-bis  del D.L. 133/2008.

Alcuni commentatori di destra, evidentemente sofferenti di forti bruciori si stomaco dopo la sonorosissima sconfitta che li ha visti perdenti nonostante il ricorso ad una tattica unfair come quella del non-voto che li ha visti partire con un vantaggio di circa il 30% di elettori che si astengono fisiologicamente ad ogni votazione, hanno affermato che con questa abrogazione si è buttato via il bambino assieme all’acqua sporca, cancellando anche il richiamo alla benefica concorrenza alla pari tra pubblico e privato che era prevista nell’articolo abrogato.

A parte il fatto che continuo a nutrire fortissimi dubbi circa la possibilità di un efficace e soprattutto benefica -as in social benefit- concorrenza in quella che è e non può che rimanere un monopolio naturale, tale critica è palesemente falsa. Resta infatti in piedi l’obbligo dell’Italia nei confronti dell’UE di prevedere gare ad evidenza pubblica per l’assegnazione delle concessioni per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, così come sono definiti dall’UE e fedelmente tradotti e riproposti dal PD all’epoca del passaggio alle camere del Decreto Ronchi. Quelli che vengono cancellati sono gli obblighi alla privatizzazione della parte migliore dell’apparato pubblico, ovvero quelle aziende pubbliche che si trovavano a gestire servizi in maniera efficiente.

Quello che però taglia veramente le gambe alle multinazionali dell’acqua è la cancellazione, prevista dal secondo quesito, della remunerazione obbligatoria e fissa al 7%, del capitale investito, no matter where, why or how. Questa cancellazione ha l’effetto di riportare la concorrenza all’interno di questo mercato al reale significato di monopolio naturale come mercato in cui l’unico ente capace di lavorare massimizzando il beneficio sociale è lo stato. La risposta dei commentatori di cui sopra è che in questo modo gli investimenti necessari alle infrastrutture devono essere effettuati dallo stato, che non ne è in grado e che invece dovrebbe lasciare degli oneri che sono attualmente a suo carico a beneficio dei profitti privati ed a detrimento degli benefici sociali. La mia contro-risposta è che questo discorso non può essere effettuato sull’acqua e che si state chiedendo perché vi invito a ragionare sul significato dell’acqua per la vita umana e, se ancora riuscite a cogliere il perché, di provare con l’aria e degli effetti che un sistema efficace e spietato come quello fondato sul greed ha sugli ultimi, su chi “non può permetterselo”.

Per quanto riguarda il nucleare bisogna sgomberare il campo da ogni dubbio circa la ventilata impotenza del parlamento di legiferare in materia di programmazione energetica nazionale. A tal punto sono infatti arrivati alcuni, che nella cancellazione del cavallo di troia inserito dal governo all’interno nella normativa che sanciva l’abbandono italiano al  nucleare hanno visto una del tutto insussistente affermazione dell’incapacità delle camere di legiferare in merito alla politica energetica, agli incentivi alle energie rinnovabili e quant’altro. Tutto ciò supera la falsità per scadere nel ridicolo, nel grottesco e gli elettori se ne devono essere accorti, visto che i risultati del SI a questo quesito sono superiori, a parità di condizioni, rispetto ai risultati dei referendum del 1987 che hanno stabilito l’abbandono dell’energia nucleare.

I contrari al nucleare sono aumentati, ma mentre nel 1987 il referendum si fece dopo il disastro nucleare di Chernobyl, questa volta si è assistito ad un disastro a Fukushima quando già stabilito di fare un referendum contro il nucleare. Io non credo ne nel destino ne in una volontà superiore e l’unico modo in cui riesco ad analizzare questa che per me è una coincidenza è che perlomeno l’uomo riesce ad imparare dai propri errori. Purtroppo poi lo stesso è afflitto da una memoria tristemente breve e tende a ricaderci già all’interno di un lifespan.

Sul legittimo impedimento non serve dir nulla, ne tentomeno mi interessa parlarne in presenza di questi ben più importanti argomenti.

I benefici di questa per me insperata vittoria mi hanno ridato una grandissima fiducia nei confronti di quel popolo italiano, soprattutto di centro-destra, che su temi come questi hanno dimostrato come fosse falsa la mia idea di una loro totale insensibilità. Buon per me e per tutti quanti noi.

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